Premessa su un dibattito visto al di qua dell’oceano
Quando mi imbatto nell’articolo di apertura dell’ultimo numero del 2023 di «Anthropology Today» intitolato Complexities of Gender and Sex (Lancaster, Marks, Fausto-Sterling, Fuentes, 2023, pp. 1-2), sono/siamo immersi nella scrittura (Fusaschi, Rebucini, 2025, in stampa), anche per ricordare i cinquant’anni dall’uscita del noto The traffic in women. Notes on the Political Economy of Sex di Gayle Rubin, pubblicato per la prima volta in quella che è oramai divenuta un’antologia classica curata da Rayna R. Reiter, Toward an Anthropology of Women (1975). Poche righe per ricordare che Rubin è stata protagonista dell’antropologia femminista degli anni Settanta per aver argomentato dinamicamente la distinzione tra sesso e genere (sarà peraltro la prima a impiegare proprio il termine “genere” nell’antropologia culturale), intesi come parti di un processo di trasformazione continuo del sesso biologico e anatomico in generi significativi, culturali e asimmetrici, attraverso cui vengono soddisfatti bisogni sessuali storicamente determinati. Nasce così la sua nota definizione di sex/gender system che, nel superare l’opposizione dicotomica e stabile di genere e sesso, favorirà anche la transizione dall’antropologia delle donne all’antropologia femminista, nonché un uso analitico del genere come categoria disvelatrice delle forme di potere, da cui la celebre espressione «l’oppressione non è inevitabile» (Rubin, 1975). Una fonte di ispirazione anche per altre discipline, basti pensare a Joan Scott (1986) nella storiografia e al lavoro che ha fatto e continua a fare Judith Butler nella filosofia, la cui risonanza va ben al di là del campo accademico1.
Non ci sono dubbi sul fatto che quella degli anni Settanta sia stata una stagione feconda. Basti ricordare l’esplosione di ricerche, pubblicazioni e dibattiti che si collocavano – stando alla ricostruzione che ne fa Donna Haraway in un accattivante scritto sul rapporto tra genere e marxismo (1991) – nel quadro epistemologico del binarismo natura/cultura e sesso/genere, là dove le studiose femministe dell’epoca si erano poste l’obiettivo di enfatizzare i dati storici costruttivi superando quelli biologici per sostenere il primato della cultura/genere sulla biologia/sesso. Questo fermento intellettuale faceva parte di un più ampio e «vigoroso dibattito politico e scientifico sulla costruzione del sesso e del genere come categorie e come realtà storiche emergenti, in cui i testi femministi sono diventati preminenti a metà degli anni Settanta, soprattutto nella loro critica al “determinismo biologico” e alla scienza e alla tecnologia sessiste, in particolare alla biologia e alla medicina […]. Questi dibattiti spaziavano dalle differenze genetiche nelle capacità matematiche di ragazzi e ragazze, alla presenza e al significato delle differenze di sesso nell’organizzazione dei neuroni, alla rilevanza della ricerca sugli animali per il comportamento umano, alle cause del dominio maschile nell’organizzazione della ricerca scientifica, alle strutture e agli usi sessisti standardizzati del linguaggio, ai dibattiti sulla sociobiologia, alle lotte sul significato delle anomalie dei cromosomi sessuali fino alle analogie tra razzismo e sessismo» (Haraway, 1991, p. 138).
Tornando quindi al recente articolo di «Anthropology Today» con queste consapevolezze – che dovrebbero comunque far parte di un sapere condiviso anche al di fuori degli specialismi –, più che il solo ricordo di Rubin, a suscitare il mio interesse è già, in senso problematizzante, l’impiego del termine “complessità” nel titolo, accanto a quelli di “genere” e “sesso”. Mi pongo immediatamente la domanda del perché proprio in questo momento e, soprattutto, rispetto a quanto è stato fino ad ora investigato, scritto e socializzato, quantomeno in antropologia. Evidentemente qualcosa sarà rimasto da chiarire, se a mobilitarsi sono autorevole.i collega.ghi d’oltreoceano, conosciuta.i a livello globale per i loro studi in questo ambito e che firmano la pubblicazione: Roger Lancaster, antropologo alla George Mason University, Jonathan Marks, antropologo biologico alla University of North Carolina a Charlotte, la biologa e docente di studi di genere Anne Fausto-Sterling, della Brown University, e infine Agustín Fuentes, anche lui antropologo a Princeton.
Nello stile della rivista, l’articolo è piuttosto breve. La scelta stilistica è quella di una divisione per punti con argomentazioni che seguono un andamento diacronico nella storia dell’antropologia nelle sue intersezioni con le altre discipline, a partire dalla filosofia e fino a quelle considerate dure, come la biologia. L’articolo si apre con un excursus sintetico sulla dicotomia sesso/genere che, emersa per l’appunto nell’ultimo quarto del XX secolo, ha incoraggiato nuove linee di ricerca rimanendo tuttavia, agli occhi della.gli autrice.ori, «teoricamente bloccata» (Lancaster, Marks, Fausto-Sterling, Fuentes, 2023, p. 1). Nei fatti, «la seconda ondata di politica femminista, che vedeva contrapporsi il “determinismo biologico” al “costruzionismo sociale” e alla biopolitica delle differenze di sesso/genere, si è svolta all’interno di campi discorsivi pre-strutturati dal paradigma dell’identità di genere, cristallizzato negli anni Cinquanta e Sessanta» (Haraway, 1991, p. 131), là dove il genere (gender) trovava un’origine nel campo medico. Il riferimento è sicuramente a Robert Stoller, attivo psichiatra presso il Medical Centre for the Study of Intersexuals and Transsexuals dell’Università della California, Los Angeles (UCLA), al suo Gender Identity Research Project e alle ricerche che, facendo seguito al crescente interesse per il transessualismo e per la disforia di genere a partire dal 1951, avevano condotto gli psicoanalisti John William Money e Anke Ehrhardt a dare vita alla Johns Hopkins Medical School’s Gender Identity Clinic nei primi anni Sessanta. Gli studi di Money ed Ehrhardt proponevano una versione interazionista del paradigma dell’identità di genere, per cui il sesso dipendeva dalla natura, mentre il gender si basava sull’interazione tra l’ereditarietà biologica e l’influenza ambientale, producendo una vasta gamma di differenze di sesso/genere. Sono note le critiche fatte a questo approccio per la sua visione patologizzante, soprattutto in riferimento all’intersessualità (Agramonte, Fusaschi, 2024, in stampa).
Secondo Lancaster, Marks, Fausto-Sterling e Fuentes, nei successivi venticinque anni del XXI secolo, le idee sul sesso, sul genere e sul rapporto tra i due avrebbero – grazie al lavoro delle biologhe femministe e queer – subito profondi cambiamenti, partecipando a nuove formulazioni dinamiche del biosociale. A queste vanno aggiunti, a mio avviso, anche i contributi dell’antropologia queer quale estensione dei gay e lesbian studies sulle sessualità che hanno specificatamente sfidato gli immaginari sul binarismo, proprio perché gli.le antropologi.ghe «sanno da tempo quanto siano culturalmente specifiche le idee binarie su sesso e genere. E ora siamo alle prese con i cambiamenti in corso sia nella teoria che nella pratica» (Lancaster, Marks, Fausto-Sterling, Fuentes, 2023, p. 1).
Mi piace sempre ricordare il fatto che già trent’anni fa Evelyn Blackwood chiariva, quantomeno rispetto al genere e alla sua complessità e difficoltà di comprensione, come questa derivasse in parte «dalla fusione di due processi distinti ma interagenti: genere come categoria culturale e genere come soggettivo» (Blackwood, 1998, p. 492) nel senso dell’esperienza, fatto questo che chiamava in causa anche lo stesso posizionamento del.la ricercatore.trice, complessificando ulteriormente, in questo senso, l’uso della categoria di genere. Ad ogni modo il genere rimane oggi un «concetto utile proprio perché può essere svincolato dai binarismi normativi e collegato ad altre questioni» (Lancaster, Marks, Fausto-Sterling, Fuentes, 2023, p. 2), anche quando, come vedremo, in alcuni contesti – anche accademici – il pensiero della differenza sessuale pervade il senso comune.
L’articolo di «Anthropology Today» va quindi letto in questo senso, ovvero come un piccolo manifesto che annuncia e denuncia un pericolo, perché è propriamente dal secondo capoverso che se ne capisce l’obiettivo: fare il punto sulla complessità delle categorie sesso/genere rispetto alla turbolenza che ha investito il convegno annuale dell’American Anthropological Association (AAA) in partenariato con la Canadian Anthropology Society (CASCA), tenutosi a Toronto nel novembre del 2023. In quell’occasione le due associazioni avevano annullato, a ridosso del meeting, un panel, in prima battuta approvato, intitolato Let’s Talk About Sex, Baby: Why biological sex remains a necessary analytic category in anthropology e presentato in luglio da cinque studiose autodefinitesi femministe i cui nomi, tuttavia, non compaiono nell’articolo.
Questa circostanza ha immediatamente stimolato la mia curiosità. Ho voluto capire cosa sia avvenuto, e quello che mi accingo a fare è la ricostruzione di questa recente vicenda la cui eco non è arrivata – se non tangenzialmente, come dirò – nel dibattito europeo.
Ricostruzioni
Le grandi dispute di posizionamento nel campo antropologico hanno oramai una storia lunga. Una tra le tante è quella del 1947, quando il Consiglio esecutivo della AAA presentò alla Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite una propria dichiarazione critica nei confronti della posizione etnocentrica contenuta in quella che sarebbe diventata nel 1948 la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che si proponeva di mettere al centro la diversità attraverso il concetto di relativismo culturale.
Non è un caso che la stessa annosa e ricorrente questione del relativismo culturale sia stata fatta strumentalmente rientrare anche nel panel rifiutato, il cui sottotitolo – Why biological sex remains a necessary analytic category in anthropology2 – sarebbe probabilmente stato già di per sé sufficiente a escluderlo dalla selezione, visto il suo carattere apertamente reazionario, peraltro non inconsueto anche al di qua dell’oceano. A proporlo come coordinatrice era stata l’antropologa sociale Kathleen Lowrey, professoressa associata alla University of Alberta, già autodefinitasi gender-critical feminist con una formazione che, a suo dire, attinge al pensiero marxista e al femminismo radicale sul genere, e già da tempo allontanata dalle funzioni amministrative dalla medesima università. Il panel era composto anche da Elizabeth Weiss, antropologa fisica alla San José State University, da cui aveva rassegnato le dimissioni per aver postato una sua foto sorridente con in mano il cranio di un nativo americano nel 2021, dichiarandosi più volte contro il rimpatrio delle ossa dei nativi, obbligatorio per legge; da Kathleen Richardson, studiosa di etica della robotica alla De Montfort University, attiva contro la diffusione dei sex robot, ritenuti parte di una più ampia cultura di sfruttamento e oggettivazione delle donne che, a suo dire, rafforzerebbe la cultura dello stupro e la normalizzazione del commercio sessuale; da Michèle Sirois, presidente dell’associazione Pour le Droit des Femmes Québec, esponente del femminismo radicale canadese, già coinvolta in polemiche per la sua contrarietà a considerare come “vere donne” le donne trans e quindi contraria, tra l’altro, alle statistiche sul genere; da Silvia Carrasco, antropologa all’Autonoma Università di Barcellona, nota per la sua ostilità nei confronti delle teorizzazioni e delle persone che si definiscono queer; e da Carole Hooven, della Harvard University, la quale aveva comunque rinunciato alla partecipazione al panel e che, a suo dire, sarebbe stata costretta a lasciare la prestigiosa università nel gennaio di quest’anno a causa delle sue prese di posizione in favore del binarismo nel campo della biologia umana3. Si tratta di studiose che, nel corso della loro carriera, sono state ascrivibili a vario titolo in un pensiero della differenza sessuale e nel femminismo radicale nel senso statunitense, che ritiene il sesso biologico un elemento imprescindibile nella lotta per i diritti delle donne sulla base di studi scientifici ritenuti tuttavia poco rigorosi. È opportuno ricordare che queste posture differenzialiste radicali si fondano, tra l’altro, sull’idea che i diritti delle donne biologiche siano messi in pericolo dalle rivendicazioni delle donne trans, non ritenute vere donne. Per chi aderisce a questo tipo di femminismo, le donne trans sono da ritenersi responsabili della sottrazione di spazi che dovrebbero essere invece riservati alle sole donne biologicamente attestate, a partire dalla toilette, passando per lo sport, fino ad arrivare ai centri antistupro e alle carceri. In questo senso potremmo ascrivere l’intero panel all’interno del pensiero gender-critico, più noto come Trans-Exclusionary Radical Feminism (femminismo radicale trans-escludente), conosciuto con l’acronimo TERF, in linea con la Declaration of Women Sex-Based Rights, già firmata da più di trentasettemila persone4. La proposta del panel cancellato va quindi propriamente letta come un tentativo di legittimazione scientifica di un posizionamento politico e pseudoscientifico già noto, là dove le relatrici avevano intenzione di parlare dell’identificazione del sesso negli scheletri, di una lettura della pornografia incentrata sulla tecnologia e sulla misoginia in essa insita, ritenuta prostituzione filmata5, della diffusione dell’ideologia gender nelle statistiche del campo dell’istruzione e del lavoro quale forma di restrizione degli spazi delle donne intese come essenze biologiche. Questo per tentare di dimostrare che una lettura di genere produrrebbe danni alle donne e che quindi occorrerebbe parlare di violenza basata sul sesso e non sul genere.
Come già accennato in precedenza, il 13 luglio 2023 il comitato selezionatore del convegno aveva comunicato l’accettazione del panel alla coordinatrice. Il 25 settembre la presidente dell’AAA, Ramona Pérez, e la sua omologa della CASCA, Monica Heller, indirizzavano una lettera alle relatrici comunicando l’annullamento dell’accettazione in seguito alla richiesta di numerosi.e soci.e, in considerazione del fatto che «le idee erano avanzate in modo dannoso per i membri trans e LGBTQI della comunità antropologica e per la comunità in generale»6.
Il giorno successivo, il 26 settembre, le studiose rifiutate rispondevano alle due presidenti esprimendo il loro disappunto nei confronti delle rispettive organizzazioni e chiedendo con forza di essere messe al corrente dei documenti e dei messaggi pervenuti contro di loro. Due giorni dopo, il 28 settembre, l’AAA e la CASCA motivavano sui rispettivi siti la decisione del respingimento con un intervento dal titolo No Place for Transphobia in Anthropology: Session pulled from Annual Meeting program che si apriva così:
«Questa decisione si è basata su un’ampia consultazione ed è stata presa nello spirito del rispetto dei nostri valori, al fine di garantire la sicurezza e la dignità di tutti i nostri membri, nonché l’integrità scientifica del programma. Il primo principio etico dei Principi di responsabilità professionale dell’AAA è “non nuocere”. Il panel è stato respinto perché si basava su presupposti contrari alla scienza consolidata nella nostra disciplina, articolati in modi che danneggiano i membri vulnerabili della nostra comunità. Il panel commette uno dei peccati capitali della ricerca: presuppone la verità della tesi che si propone di dimostrare, nella fattispecie che il sesso e il genere siano semplicisticamente binari e che questo sia un fatto con implicazioni significative per la disciplina»7.
Proseguiva poi paragonando i presupposti del panel alle speculazioni pseudoscientifiche del razzismo ottocentesco:
«La funzione della ricerca gender-critica sostenuta in questo panel, come la funzione della “scienza della razza” della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo, è quella di addurre una ragione “scientifica” per mettere in discussione l’umanità di gruppi di persone già emarginati, in questo caso coloro che esistono al di fuori di un rigido e stretto binarismo sesso/genere»8.
Senza menzionare nomi e persone, tanto la risposta delle associazioni quanto l’articolo di «Anthropology Today» di Lancaster, Marks, Fausto-Sterling e Fuentes ribadiscono la decisione dell’annullamento come forma di tutela di alcune categorie specifiche di soggettività, in riferimento sia ai.lle soci.e sia ai.lle possibili partecipanti alla conferenza (studenti, dottorandi.e ecc.). Le prime affermano che «le varie identità transgender e gender esistono da tempo, e noi ci impegniamo a sostenere il valore e la dignità delle persone transgender. Crediamo che sia possibile un futuro più giusto, in cui la diversità di genere sia accolta e sostenuta piuttosto che emarginata e controllata»9, mentre la.i seconda.i insistono sul fatto che questo tipo di controversie si inseriscono in un dibattito globale più ampio sugli studi di genere, collocandosi «in un momento in cui c’è molta confusione sul pensiero contemporaneo del sesso e del genere, una distinzione costruita inizialmente come contrasto natura/cultura: sesso : genere = natura : cultura; probabilmente in parallelo con il modo in cui alcuni studiosi pensavano ancora alla razza e all’etnia. Ma per quanto queste dicotomie possano risultare “utili per pensare”, non riflettono necessariamente le realtà biologiche, culturali ed esperienziali che identifichiamo e studiamo oggi. Il “sesso”, come la “natura”, non è più inteso come il substrato inerte e mutevole dell’esistenza umana. Il “genere”, come la “cultura”, non è più immaginato come un campo di costrutti stabili in cui tutto si presenta come una dicotomia» (Lancaster, Marks, Fausto-Sterling, Fuentes, 2023, p. 1).
Come non essere d’accordo, soprattutto considerando che l’antropologia si è storicamente interrogata sul significato dei “generi” (donna, uomo, omossessuale, lesbica, trans e queer ecc.). Lo ha fatto anche quando non aveva ancora identificato nel “genere” la parola e il concetto adeguati. Ma ha anche studiato come questi si definiscono nelle relazioni sociali, dunque la parentela, le sessualità, la riproduzione in tutte le sue sfaccettature all’interno di dinamiche di potere nei diversi contesti culturali e sociali.
Il giorno successivo, il 29 settembre, Agustin Fuentes della Princeton University, Kathryn Clancy dell’University of Illinois, Robin Nelson dell’Arizona State University, tutti e tre antropologi biologici, firmavano a loro volta una Letter of Support for AAA’s Withdrawal of Session from the Annual Meeting, venendo a smentire anche dal punto di vista della biologia umana i presupposti pseudoscientifici del panel cancellato. Le persone non binarie, trans o queer, e/o quelle che abitano categorie di sesso diverse da maschio o femmina, affermano, «sono esistite in tutte le società umane e durante tutta l’evoluzione umana. Ciò che è tipico delle categorie di sesso e genere umano è che esse non sono semplici, non sono binarie, sono sempre influenzate dalle credenze culturali del momento e cambiano. Continuare a lavorare a partire da questi presupposti confutati significa lavorare nella penombra, perdere di vista il quadro complessivo e non impegnarsi in un’antropologia scientifica rigorosa, empiricamente fondata e tempestiva»10.
Queste prese di posizione pubbliche contro il gruppo del panel sono state oggetto di molteplici interventi critici, a favore o contro, da parte dei media e dei social media. A scriverne, tra gli altri, sono stati oltreoceano il «New York Times»11, «Newsweek»12, la «National Review»13, Substack14 e «Retraction Watch»15. Allo stesso tempo vari siti e alcune tribune con petizioni esprimevano invece disapprovazione nei confronti di quella che è stata ritenuta una censura della libertà di espressione. Del medesimo tono una lettera aperta firmata da più di duecento accademici.che, per lo più statunitensi e canadesi, sul sito «THEFIRE», nella quale si evidenziavano le possibili ricadute negative di una cancellazione tardiva e una mancanza di confronto, anche duro, in merito alle idee e ai posizionamenti16. Sul fronte francofono la rivista «Marianne» pubblicava, il 3 ottobre, un articolo e una relativa petizione sulla «libertà scientifica compromessa» e la deriva totalitaria firmata da più di settanta personalità del mondo della ricerca francese17, alcuni.e dei.lle quali anche molto conosciuti.e.
Volendo mettere un primo punto sulla vicenda brevemente ricostruita, nelle settimane successive, sulla scia di una certa pubblicità derivante da questo rifiuto e, soprattutto, appoggiandosi alla retorica delle vittime del sistema egemone del politicamente corretto, le protagoniste femministe gender-critiche hanno rilasciato interviste manifestando il loro disappunto e ribadendo con forza le loro convinzioni. Va anche detto che l’8 novembre l’intero panel si è tenuto in streaming18 sul sito di stampo conservatore statunitense «Heterodox Academy» (HxA)19.
Verso una conclusione aperta: l’antropologia critica di genere è l’opposto della critica antropologica all’ideologia gender
La scelta di annullare un panel precedentemente approvato comporta sempre, e senza ombra di dubbio, una grande assunzione di responsabilità da parte del comitato scientifico e organizzativo di un congresso. Implica quindi indiscutibilmente la consapevolezza di esporsi alle critiche, soprattutto quando si tratta di temi particolarmente sensibili e facilmente strumentalizzabili politicamente. In più, quando si entra nell’ambito femminista, le cose si fanno ancora più complicate, perché se da un lato si dovrebbero dare per noti gli orientamenti plurali che lo caratterizzano – tanto nel campo dei movimenti quanto in quello accademico –, dall’altro, come ho già avuto modo di sottolineare altrove, il solo termine “femminismo”, pure tra gli.le accademici.che progressiste.i, suscita sempre un sussulto, e non sempre in senso positivo (Fusaschi, 2018; 2021). Questo perché pare essere ancora un ambito per specialisti.e, altrimenti anche l’articolo di Lancaster, Marks, Fausto-Sterling e Fuentes non sarebbe stato necessario. Rimangono invece molti chiarimenti da affrontare. Se ci fosse stata per l’appunto una sensibilità diffusa e acquisita – per non dire incorporata – all’antropologia di genere femminista e queer tra chi quel panel lo ha selezionato, la tormenta sarebbe passata senza investire così fortemente il campo, polarizzandolo nel regresso a certe idee essenzialiste proprio per l’infondatezza scientifica delle medesime.
Ma visto che nelle pratiche scientifiche l’errore è sempre ammissibile, altrettanto è stato il tentativo di porvi rimedio attraverso l’annullamento e accettando i giudizi conseguenti, dovuti evidentemente alla «clamorosa» cancellazione a ridosso dell’incontro, anche se poi molte di queste stesse critiche si sono soffermate più sul gesto del respingimento che sull’analisi delle motivazioni dello stesso. D’altro canto, il rifiuto ha dato anche una certa visibilità alle proponenti che, come spesso accade in casi analoghi, hanno adottato la retorica della vittimizzazione senza motivare la loro proposta attraverso dati scientificamente più attendibili. Come ci ricorda efficacemente Casalini, il linguaggio della vittimizzazione da parte delle femministe gender-critiche o TERF «consente di fare ricorso alla potente narrativa dell’essere silenziate: l’aggressore lamenta di sentirsi aggredito per silenziare chi denuncia la violenza subita» (Casalini, 2024, p. 90). Una postura peraltro molto in voga nel linguaggio politico delle destre.
Verosimilmente, anche la scelta delle associazioni di non fare mai riferimento ai nomi delle paneliste – come nel caso dell’articolo di «Anthropology Today» – va letta nel senso di non consentire ulteriori spazi di protagonismo e mitomania; al contrario di come invece ho scelto di fare io in questo articolo. Ritengo infatti che debba esistere un luogo di visibilità del biasimo e di assunzione di consapevolezza, se si considera che queste posizioni e le loro portatrici trovano spazio anche in riviste prestigiose, a testimonianza del fatto che stiamo su un campo minato e viviamo in un momento politico particolarmente complicato.
Forse da questa parte dell’oceano la situazione sarebbe stata diversa20, ma ora è semplice dirlo; considerando che in Europa – e certamente in Italia e in Francia – esiste ancora, almeno per ora, la libertà di insegnamento, ahimè sempre di più presa di mira21, questo panel o non sarebbe stato accettato (presupponendo appunto una sensibilità scientifico politica su questi temi) oppure, se lo fosse stato, avrebbe auspicabilmente ricevuto vigorose contestazioni (certamente le mie) proprio a causa della consapevolezza degli attacchi strumentali alla cosiddetta ideologia gender presenti anche nei contesti europei, non da ultima l’Italia, e non solo in ambito cattolico.
Certamente sul fronte antropologico questi posizionamenti conservatori, anacronistici e scientificamente infondati colpiscono ancora di più proprio in virtù del carattere implicito nella disciplina di denaturalizzazione e di de-essenzializzazione degli universi socioculturali. Se pensiamo ai questionamenti sulle posture anche in relazione all’intersoggettività nel rapporto informatori.trici/ricercatori.trici, storicamente è proprio l’antropologia femminista ad averci equipaggiato sul piano della teoria e del metodo, consentendo una migliore interpretazione circa le relazioni di genere e generazione e riuscendo al contempo a far emergere i pregiudizi sessisti, razzisti e paternalisti presenti nel discorso antropologico precedente.
Questa vicenda, nel suo articolato divenire, ci spinge verso una riflessione più ampia già a partire dall’uso del lemma “femminismo” oggi, perlomeno in antropologia, lemma al quale sono personalmente affezionata debitrice ma anche costruttivamente critica. Occorre però una consapevolezza sull’appropriazione del medesimo anche in chiave funzionale e politicamente pericolosa, come ha ben sottolineato, per esempio, Sara Farris nel suo lavoro sul femonazionalismo (Farris, 2017).
Ampliando quindi quanto già avevo detto in altri scritti, vorrei ribadire che è praticando l’etnografia femminista e queer che il sapere antropologico ha decostruito gli essenzialismi, evidenziando quanto, nelle storie delle soggettività, la biologia non costituisce un destino preassegnato e ineluttabile, là dove non determina univocamente i significati di uomo e donna, così come, grazie anche al contributo di Rubin, ha sottolineato quanto il patriarcato non sia l’unico elemento dell’oppressioneeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee22.
Forse oggi dovremmo riflettere e pensare – senza scordarci da dove veniamo, almeno alcuni.e di noi – a riformulare il lemma stesso “femminismo”, se questo arriva a inglobare anche il gender-critico. Se per un verso possiamo chiedere che nelle analisi antropologiche il femminismo sia sempre aggettivato, in modo da aver chiaro a quale corrente si fa riferimento, dall’altro potremmo magari proporre un’antropologia – e un’etnografia – critica e politica di genere (critical and political anthropology of gender), che inglobi il posizionamento femminista e queer sulle sessualità, quindi sulle asimmetrie di potere, come netta presa di distanza da un’antropologia che critica e nega il genere (critical anthropology on gender), giustappunto gender-critico. I due posizionamenti sono ai miei occhi antitetici, soprattutto perché quest’ultima continua a parlare su (essenze) e non con (soggettività).
È proprio posizionandosi intersoggettivamente con i.le propri.e interlocutori.trici che si misurano le potenzialità dello specifico strumentario antropologico in termini de-costruttivi. A dispetto di un’antropologia TERF che oramai esiste e si rivendica femminista – ahimè anche nel campo progressista –, dobbiamo continuare a sottolineare con ancora più forza, come fanno Lancaster, Marks, Fausto-Sterling e Fuentes, che i generi nelle loro pluralità esistono come esistono le sessualità. I generi devono essere concepiti e analizzati all’interno di campi di forza (politici e politicizzati, locali e globali), non come soggettività omogenee, quanto piuttosto come rappresentazioni eterogenee ed eteronome che, a loro volta, si definiscono nei contesti.
Forse da qui possiamo/dobbiamo ripartire.